Prima Internet e poi il Cloud hanno cambiato profondamente la nostra società. L’abbondanza di dati ed il facile accesso ad enormi potenze di calcolo hanno innescato l’esplosione dell’Intelligenza Artificiale (IA). Algoritmi che imparano dai dati e sono in grado di vedere, sentire, capire, predire e decidere in modo ottimale, in tempi velocissimi e a basso costo. In alcuni campi ristretti, addirittura con una precisione superiore a quella umana.
Come l’energia elettrica è stata una delle principali innovazioni che ha trasportato l’umanità dalla prima alla seconda rivoluzione industriale, così l’energia cognitiva prodotta dall’IA ci sta portando nella quarta (essendo stata la terza quella dell’informatica, delle comunicazioni (ICT) e dell’automazione).
In qualunque settore economico e scientifico, nella ricetta per una start up che aspira al successo non può mancare l’IA, ma l’innovazione proposta è spesso una soluzione in cerca di un problema. In un approccio che per comodità definirò Top-down, si parte dalle possibilità aperte da una nuova tecnologia e si cercano dei problemi che possono essere risolti, spesso conoscendo più la tecnologia che il settore economico di applicazione.
Per contro nemmeno l’approccio inverso (Bottom-up) che, nel nostro caso, consiste nel chiedere ai clienti cosa vorrebbero, difficilmente è destinato a produrre vera innovazione. Una delle frasi celebri di Henry Ford è “se avessi chiesto agli Americani cosa desiderassero per spostarsi meglio, mi avrebbero risposto: cavalli più veloci”. L’evoluzione è buona cosa ma tende ad esaurirsi dando vantaggi sempre minori. A volte una nuova e ancora poco sperimentata tecnologia è l’unico modo per fare un salto in avanti.
Per innovare è necessario possedere alcune caratteristiche che definirò poi, ma la condizione preliminare è una buona conoscenza sia della tecnologia che delle pratiche e dei meccanismi in atto nel settore industriale che si vuole affrontare. Questo consente di unire gli approcci Top-down e Bottom-up nella guida efficace dei tecnici incaricati della implementazione, in modo da arrivare ad un’innovazione che sia accettata, funzioni, e soprattutto produca un veloce ritorno sull’investimento.
Sull’innovazione sono stati scritti così tanti autorevoli libri da non tentare nemmeno un elenco, che sarebbe inevitabilmente incompleto e partigiano. Fornisco solo alcune idee che mi hanno sempre animato.
Curiosità anche per settori diversi, perché una nuova soluzione in un campo può aiutare ad aprire nuove strade in altri settori.
Analisi costante delle innovazioni tecnologiche, più alla ricerca delle discontinuità che della continuità. Mentre il secondo approccio consente di rimanere nella propria zona di comfort, solo l’esplorazione di territori sconosciuti porta, a volte, a vere scoperte.
Scelta accurata delle innovazioni tecnologiche da adottare perché non tutte daranno un ritorno economico e qualcuna potrebbe addirittura rivelarsi un binario morto. Ma una volta scelta, mai sprecare un’innovazione con semplici adattamenti. Solo una riprogettazione, almeno parziale, consente di sfruttare i nuovi paradigmi (le nuove regole del gioco).
Capacità di astrazione e modellazione, in altre parole la ricerca dell’essenza nelle dinamiche in gioco, siano esse tecniche o economiche.
Capacità di mettere la teoria in pratica attraverso buon senso, tenacia e impegno. L’1% di ispirazione e 99 % di sudore a cui alludeva Thomas A. Edison.
Abitudine a mettere in discussione lo “status quo”. Con la velocità di cambiamento che stiamo vivendo, una risposta come “si è sempre fatto così” è agghiacciante.
Ricerca della semplicità, cui dedicherò qualche riflessione aggiuntiva.
“Complicare è facile, semplificare è difficile” diceva il compianto designer Bruno Munari. E a voler rimarcare la delicatezza del confine, Albert Einstein diceva: “Tutto dovrebbe essere più semplice possibile, ma non più semplice”. La risonanza mondiale dell’architettura Palladiana del rinascimento e del Bauhaus della prima metà del novecento, sono dovuti anche alla ricerca della giusta misura.
Dal punto di vista del software, la semplicità e coerenza dell’interfaccia utente, oltre ad avvicinare al bello, favorisce la semplicità d’uso, ancora più essenziale in un ambiente di “Retail as a Service” dove velocità e agilità sono valori fondamentali. Inoltre, addentrandoci nei meccanismi interni di funzionamento, è risaputo che quello che non c’è non si può rompere, ma richiede un progetto architetturale molto consapevole, maturo e lungimirante, per non trovarsi poi costretti a semplificare più del possibile oppure a complicare nuovamente tutto con delle “pezze”.
Parlando di Retail, la quarta rivoluzione industriale ci porterà catene di negozi in cui le decisioni su prezzi, assortimenti e rifornimenti, dopo un periodo di affiancamento, saranno assunte automaticamente da algoritmi intelligenti. Il ruolo delle persone al centro si potrà concentrare su aspetti più strategici, quali il posizionamento dell’insegna rispetto ai concorrenti, il tipo di esperienza da offrire ai clienti, la definizione e la comunicazione di contenuti e valori ai collaboratori nei punti di vendita, affinché essi sappiano trasmettere nel migliore dei modi l’identità della catena ai clienti ed assumere decisioni coerenti di fronte agli inevitabili casi eccezionali.
Ma assisteremo anche a capovolgimenti dei modelli di business. Il modello attuale dell’eCommerce si può definire “shop then ship”. Il cliente esamina i prodotti, decide di acquistarne alcuni e infine questi vengono spediti. Ci sono già oggi Retailer come Le Tote, Stitch Fix … che hanno rovesciato il modello in “ship then shop”. Il cliente riceve dei prodotti che NON ha richiesto (ma che un algoritmo di IA ritiene saranno quelli più graditi) e tra quelli sceglie quali tenere e quali rendere. Non è ancora usato da Amazon, nonostante nel 2013 abbia depositato un brevetto su questo argomento, perché ora i volumi di spedizioni e resi sarebbero eccessivi rispetto ai margini, ma con il miglioramento degli algoritmi di raccomandazione e l’automazione della logistica, questo modello potrebbe diffondersi velocemente. D’altronde lo scandalo Cambridge Analytica di qualche anno fa ci ha fatto scoprire che Facebook e Google conoscono i nostri orientamenti e desideri meglio delle persone più vicine a noi.
Wladimiro Bedin
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